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Come il mercato musicale ci insegna a fare marketing

Qualche giorno fa mi sono imbattuta in una notizia dell’Ansa che mi ha fatto riflettere: “Tutti pazzi per la musica vintage nell’era del digitale”, recitava il titolo.

In sostanza, quel che emerge è un potentissimo ritorno della fruizione di musica vintage: nel 2021, il 74% del “consumo” di musica , è stato legato a brani cosiddetti “da catalogo”, cioè con almeno 18 mesi di vita; gli stessi che, sempre nello stesso periodo, hanno generato oltre il 50% dei ricavi della Universal Music nel prospetto di quotazione della borsa di Amsterdam.

Diciotto mesi sono un anno e mezzo e questo limite temporale per far entrare i pezzi nel cosiddetto catalogo ce la dice molto lunga rispetto alla vita media nel mercato musicale, che è evidentemente sempre più breve.

L’altra ovvia considerazione a cui possiamo arrivare è che i pezzi vecchi di due anni non sono certo quelli che fanno la parte del leone nelle vendite: immagino che il ruolo da protagonisti lo abbiano quelli vecchi di almeno 40 anni.

Una tendenza diffusa ovunque, anche nel nostro Paese, dove i brani degli anni ’80 e ’90 sono ascoltati per il 23/28% da ragazzi di età compresa fra i 16 e i 24 anni e addirittura un 15% di questo pubblico si spinge indietro fino alla musica degli anni ’70.

Ma oltre ai dati sterili, cosa giustifica questo fenomeno?

Difficile dirlo.

Da cultrice negli anni ’80, mi verrebbe da rispondere con una battuta sicuramente infelice, ma che immagino sia già fiorita sulla bocca di molti:

“Quella era la vera musica…. quella di oggi, fa schifo”.

Eh, vabbeh…. un po’ lo penso davvero, con le dovute eccezioni sia per quanto riguarda il bello dei brani anni ’80 che rispetto al brutto di quelli contemporanei. Non è questione di non essere aperti al nuovo, ma l’impressione che la musica vera abbia perso un po’ di anima e si sia svenduta allo spettacolo.

Dialogo con un ottenne

Ne parlavo proprio ieri con mio figlio, 8 anni e un’enorme passione per Aretha Franklin e Ray Charles, che con candore mi ha chiesto: “Mamma, ma perché a me piace la musica vecchia, secondo te?”

Mi sono fermata a pensarci e gli ho dato questa risposta:

“Perché a te piace la musica vera, ti piacciono i cantanti che sanno cantare, le band che sanno suonare… Oggi per diventare cantanti di successo non è fondamentale avere una gran voce, né saperla usare: per molti basta saper stare su un palco, dare al pubblico quello che chiede.

Invece a quei tempi, si faceva esattamente il contrario. Il pubblico veniva istruito, Freddy Mercury ha messo nei suoi pezzi musica d’opera, Aretha Franklin ha tirato fuori dalle chiese il gospel, ma soprattutto, erano tutti personaggi autentici, non costruiti. E questo piaceva allora e piace ancora oggi.”

Torniamo quindi al significato più profondo di questo trend: non si tratta di qualcosa di rivisto, rilanciato o rimaneggiato. Nel pieno del boom del digitale, nelle nostre case e nei negozi tornano con prepotenza i vecchi vinili e addirittura ho sentito di un’azienda che ha rilanciato le musicassette.

E allora mi interrogo: non è che in questo momento di forte smarrimento e di immagine a tutti i costi, le persone siano alla ricerca di autenticità?

Forse gli anni ’80 sono stati semplicemente l’attimo fuggente in cui immagine e tecnica avevano trovato un bilanciamento perfetto: prima sapevi cantare e suonare e solo dopo potevi diventare anche showman. Oggi, invece, l’importante è avere immagine, poi se domini anche la tecnica, è un in più.

Ma è davvero questo ciò che vuole il pubblico?

Nel perfetto mondo di oggi, il suono gracchiante di una puntina su un vinile rivela vulnerabilità, umanità e calore e Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno.

Cosa c’entra tutto ciò con il marketing?

C’entra, eccome! Anche i brand, oggi più che mai, non devono temere di mostrarsi per quello che sono: talvolta imperfetti, ma autentici.

Perché dietro a un marchio ci sono (e spero ci saranno sempre) le persone.

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